sabato 8 gennaio 2022

L'arte di Gloria Tranchida nella recensione di Fulvia Minetti

Il Critico d’Arte prof.ssa Fulvia Minetti, a proposito della mostra La nevrosi rituale della città identitaria e l’etica veritativa dell’arte che la Galleria Accademica d’Arte Contemporanea della Città d’Arte Canale Monterano di Roma presenta  dal 22 gennaio al 5 febbraio, scrive a proposito dell'artista: “Il linguaggio minimalista di Gloria Tranchida circonda ed esacerba una prospettiva dell’abitudine ambientale e ricorda che ambiente esterno ed interiore sono stretti nel desolato esiziale abbraccio di una medesima sostanza, a stento sopravvissuta alla cecità degli usi di vita.


L’artista rappresenta il sostrato comune della vita umana e naturale con la carta, il continuum della pelle psichica della riflessione dell’uomo con la pelle viva del mondo, nell’atto che la ricicla dall’oblio del rifiuto e del rimosso dell’inconscio, dallo stato di nigredo, di smembramento indifferenziato della materia, che viene chiamata alla trasmutazione alchemica, dalla morte alla rigenerazione, alla risurrezione della coscienza, per distillazione dell’oro filosofale, dell’essenza spirituale della saggezza, che dispiega nuove prospettive sulle cose. L’artista espone così, in sinestesia con la carta, la nostra nuda sensibilità respiratoria ed epidermica e la nostra diretta verità cosciente agli ossidi di azoto (NOx) prodotti emessi durante la combustione di riscaldamento, di motori, di attività termoelettriche, inquinanti l'atmosfera.

Il riciclo della carta non è così legato solamente al tema ambientale, ma anche ad un’etica della verità: il già detto torna sempre a proporsi come ancora da dire. 

I paesaggi dell’artista sono in bianco e nero, in alchemica denuncia dello stato in nigredo, di mortificazione della natura che, come una fenice, è costretta quotidianamente a rinascere in breve albedo dalle proprie ceneri. Le linee di forza di progetto della vita vegetale sono orizzontali e a cenni verticali, non c’è la linea curva della fillotassi, non risuona il luogo della melodia di accomodamento armonico e vitale all’atmosfera ambientale. 


I giardini sono pensili e l’intenzione intitolante è resa dall’artista al termine inglese “hanging”, lo stesso fatalmente impiegato per l’atto d’impiccagione, nella figurazione di una degenerante verticalizzazione della naturale dimensione orizzontale, che urbanizza l’elemento terrestre in una sorta di astrazione metafisica, le cui note di giallo sono la geometrica disillusione della floreale e fertile sinestesia pollinica, per le mordenti tinte infauste del cromo esavalente. Sono note mute di un’alba mendace, specchi ingannatori per le allodole, flavente bistro cosmetico, ferale tavolozza delle attività industriali metallurgiche, che deposita cereo sul terreno dei campi, con effetti tossici e cancerogeni.

Il punto di fuga accelera e serra l’occhio del lancio di prospettiva nella direzione rettilinea della strada, a figurare la dimensione lineare del tempo della vita moderna, lontano dal tempo circolare della vita agreste, un tempo i cui istanti figli pascono dei padri, un tempo senza passato, che incolla all’illusione d’infinita perfettibilità del progresso tecnico-scientifico e che l’artista denuncia nella sua costitutiva giallastra corruttibilità, che depaupera il divenire, quando non si nutra della curvatura di senso di un eterno ritorno all’essere, di una rigenerazione naturale di vita, a vincere la vacuità di un presente di perdita.

Il delirio urbano è la letterale rappresentazione dell’uscita degenerante dall’equilibrio di scambio del confine identitario: è la fragile barriera della coscienza che cede sotto i colpi del rimosso inconscio. La costituzione della città contemporanea è profondamente legata alla costituzione contemporanea dell’identità individuale, incentrata sulla nevrotica medesimezza parmenidea dell’identificazione idealizzante e troppo facilmente incline a scotomizzare ogni eracliteo divenire, che si leghi all’alterità e alla temporalità. Il meccanismo di difesa di mantenimento dello status quo apparente di una mendace perfezione egoica, asettica e atemporale è la rimozione della differenza, l’allontanamento del rifiuto a dispetto di una metamorfosi reintegrativa sempre possibile. Finanche le scorie nere dell’acciaieria sarebbero impiegabili nei laterizi di un’edilizia sostenibile. Eppure, la differenza residuale incute l’horror vacui della morte, che l’uomo ingannevolmente esorcizza con l’allontanamento e l’oblio della diversità del nero, che tuttavia ritorna sempre e con maggior veemenza. 

Il monito della Tranchida è rivolto allora all’abitudine, al temibile “non sapere di sapere” che arrocca città e identità sulla nevrosi rituale difensiva della falsa certezza autofondante di una coscienza adusa, che non vuole vedere e che in cecità getta via, pensando erroneamente così ad una catarsi purificatoria dalla corruzione della differenza, non certo ascrivendo ad essa il giusto valore della metamorfosi creativa e del senso stesso dell’identità, ma imputando ad essa, proiettivamente, la colpa, il peccato, il divenire di morte. Questa è la scelta contemporanea del non agire, che incorre inesorabilmente nell’essere agiti: nel ritrovarsi il complemento oggetto dell’ira del residuo dimenticato.” (Critico d’Arte prof.ssa Fulvia Minetti)


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